Diari

Kenya 2016

Resoconto del viaggio ad Ol Moran di Pietro, Emanuela e Thomas - novembre 2016

Sabato 5 novembre

Pietro e Manu.arrivati, tutto ok.

Milano-Roma-Addis Abeba-Nairobi. Casa delle suore. Festa saluti canti torta regali. Braccialetto bende mixer farmaci passeggino per due gemelline. E così siamo in Kenya. Il sabato è andato.

 

Domenica 6 novembre

slum Kibera sbam. La sberla arriva secca, come una mazzata. La baraccopoli è enorme. 300.000 dicono. E nel mezzo ci sta pure la parrocchia del Sacro Cuore. La messa delle 9 è incredibile. 2h di danze canti predica riti. Come faranno? Tutto intorno miseria liquami odori scoli. Indescrivibili. I bagni sono volanti: la fanno in un sacchetto e poi si tira in strada. Visitiamo con le suore alcune famiglie da loro assistite. Donna ustionata bimbe cieche bimba disabile. La postulante è a suo agio. Ride aiuta ha parole di conforto per tutti. Sarà suora di sicuro. Ma com'è possibile? Rimarrò come prima? La città della gioia? Non sono Dominique Lapierre. Dove sono i miei alunni? Quando si va ad Ol Moran?

Prima di addormentarci io e Ema ci abbracciamo.

 

Lunedì 7 e Martedì 8 novembre

Lunedì e martedì a Nyahururu al S. Martin. Dopo Kibera questo centro per disabili con 1300 volontari locali sembra il paradiso. Trovate tutto descritto qui

http://www.saintmartin-kenya.org/it/

 

Mercoledì 9 novembre

Allora, partiti da Nyahururu alle 2. Suor Eveline guida in prima in tutta la città e mette seconda sulla statale. In confronto Dori e Adri sono Hamilton e Alonso. Allora guido io e la suora si addormenta sfinita. Per fortuna suor Geneline mi indica strada e bams. Su un rettilineo metto la quinta e il motore dice: Ciao Thomas bentornato. Nell'ultimo villaggio compro per le suore un quarto di vacca per 30 euro e ci dà sopra 2 kg di filetto. Per mi el n'ha ciava' comunque. Alle 5 dopo 1 ultima ora è mezza di rally sullo sterrato arriviamo ad Ol Moran. Che gioia. Un sogno che si avvera.

E vendro torno a Nyahururu a prendere Thomas. Speriamo che suor Eveline non dorma visto che andiamo io e lei soli. D'altro canto Ema sarà impegnata come a nurse e mi fago l'autista. Prossimamente foto. Vi abbracciamo.

Ho già 3 lavori lavapiatti, driver e italian Thatcher. 9 Sister e 11 aspiranti. Sperente no le perda la vocaziom con uno come mi.

 

Giovedì 10 novembre

Tommy tutto ok, è rimasto fino ad ora in aeroporto perché volevano fargli pagare le medicine etc. Alla fine tutto ok

Musa, da vicino appare grandissimo più che sulla t-shirt. Nessuno sa cosa ha vissuto che gli hanno fatto. E nel suo vagabondare trova talvolta una famiglia. 3 donne nonna figlia nipote. Senza uomini, i bastardi le hanno abbandonate, accudiscono lui e un altro disabile, Abel. Spastico. La comunità si fa carico dei più deboli. E lui oggi le ha aiutate a riempire 8 sacchi enormi di mais. E con lui io Ema e le sisterine. Domani arriva il carro con 3 asini, panda 4×3 + do rode, per portare il tutto ad Ol Moran Center alla macina. Vale mi dice scrivi. Ma la mano non scorre. Meglio digitare con la scrittura facilitata. Dopo la morte di Veronesi, Trump che el diaol se lo porti via, Renzi e tutti gli altri che parlano senza dire niente, Musa mi ha detto tutto senza parlare.

Asanteni.

Poi siamo andati da un altro disabile che vive col fratello. ...ma questa è un'altra storia.

 

Venerdì 11 novembre

Come si lavano i piatti ad Ol Moran?

Sister Eveline toglie lo sporco maggiore con acqua tiepida, io lavoro con acqua calda e detersivo, aspirante Josephine sciacqua con acqua tiepida e aspirante Lidia immerge il tutto in acqua bollente per la sterilizzazione finale. Poi in 2-3 asciugano. Il tutto cantando o ridendo. All'inizio mi mettono il grembiule e penso che mi vedano come un marziano. Me par de esser al Palaz.

Alimentazione: riso, fagioli o piselli o lenticchie, capusi e carote cotti. Carne solo domenica. Sto da Dio.

Dimenticavo, banane avocado arance e un frutto sconosciuto a volontà

Oggi si va su a Nyahururu a prendere Thomas. In realtà si va a sud ma si dice su perché dai 1900 di Ol Moran si va ai 2400m della town. Un viaggetto di 6 h a/r. Nyahururu è su un altopiano enorme. Si capisce che i kenioti vincono tutte le maratone. Al mattino a alla sera si vedono squadre intere di atleti in allenamento. Chi deventeria forte anche la dir Dani. Driver sullo sterrato e dove non c'è Police. Poi guida Sister Eveline. Le ho fatto vedere dov'è la terza. Sperente.

In viaggio verso North Kinangop e poi Nyahururu dal Pietrone

Vorrei che vedeste le mani e la faccia della signora che stiamo portando ad una visita. Il marito le ha dato fuoco e adesso è sfigurata e non riesce ad usare le mani😱

Amici, allora partiti da Ol Moran per Nyahururu alle 9.15 tornati alle 18.35 coi fari accesi. Con me 2 sister, una studentessa e sacchi di carbone per le Sister di Nairobi (a Ol Moran costa meno). Giornata densa di esperienze. Tappa a Kinamba per pagare retta scolastica ad una ragazza del progetto Kanga. Poi in città acquisti 25kgriso biscotti pannolini per bimbi disabili del progetto Kanga patate cavoli frutta. Tutto in quantità enormi. Ho preso pasta olio e pomodoro per cucinare domenica amatriciana per Sister. Sarà una sorpresa. Poi ho preso anche scarpe per Musa. Il nostro uomo. Poi passaggio dal meccanico perché auto perde olio poi sementi per carote poi mancava sempre qualcosa. Ad ogni modo siamo tornati con Thomas e con un ragazzo appena dimesso dall'ospedale in quanto 3 week fa è andato in coma perché, epilettico, non prendeva medicine. Al ritorno il rally è toccato a Thomas. Dopo cena festa wellcome karibu per Thomas torta discorsi emozioni. Ema ad Ol Moran in dispensario ad aiutare dottore tuttofare e Sister Jeneline a tagliare frenulo lingua a bimba 6 mesi cavar en dent a na siora vecia fare antirabbia ad uno morso dal cane dare terapia a signora con allucinazioni e ad un bambino di un anno con ameba. Il test lo hanno fatto con sangue su vetrino asciugato al sole e poi al microscopio. La moglie è tornata dopo di noi.

Adesso vado a dormire. Qwaeri.

 

Sabato 12 novembre

Abari. Colazione con le Sister poi giro con Thomas. Abbiamo visto casa magnificat campi delle suore bacino per dar da bere alle capre del progetto. Capre da latte anche nostre (anca de Caliam tranquillo Romano). Poi io driver e Sister Jeneline a Sipili per aggiungere 2l di oil al differenziale. 4h a/r. Nel ritorno g'ho fat scuola guida. Poi pranzo. Poi ancora rally per andare a comperare il carbone. 3h a/r. Poi visita a bambini disabili del progetto Kanga: Durcas Denis Alex. Tornati di notte. Cena saluto ai bimbi che dormono in casa magnificat. Ema invece ha svezzato un bimbo di 5mesi di 4kg ha aiutato durante il pranzo dei bimbi ha aperto con Sister Leontine le lettere delle classi di Besenello oltre a qualche salto per emergenze in dispensario. Che il sabato è chiuso. Tralascio il colore dell'acqua della doccia e del fazzoletto da naso. Pezo  dela fiola del carboner. Asanteni.

Abari. Vale mi dice che il mio inglese migliora di day in day. Che scoperta! Io penso sempre che il clil sia inutile anche se adesso non possiamo più dir nulla visto che è legge. Così tanto per chiarire che non mi sono rincoglionito.

Asanteni.

PS anche con K-Swhaili inizio a parlare

 

Domenica 13 novembre

Abari. Non vi ho detto che Thomas passa gran parte del tempo a mettere in ordine fatture ricevute e carte per rendicontare alla pat  (a maggioranza PDC e PDM*) le spese per il progetto Con il kanga la capra campa. Eccezionale!!!

A parte il dramma della denutrizione del 2009 causa siccità qui, se piove regolarmente, si convive con le piccole emergenze. Che diventan grandi. Un problema è dato dal fatto che spesso le family non mandano a scuola i figli disabili ma spendono il contributo statale per altre cose. Altro problema questi mariti che abbandonano moglie e figli se nasce un disabile. La Sister dice che si sposano solo per fare esperimento. Poi mi guarda dice non tutti e la ride per 10'. La scala dei valori è: uomo capre figli moglie. Se poi ha anche la moto. ....

I love woman. Everyone!

Translation: ve amo. Tute!

*partito della caneva e partito dei masochisti.

 

Alle 9 messa. In una chiesa dispersa in mezzo alla savana. Solo 30' rally. Pole Pole si è riempita. Paesaggio bellissimo. Balli canti molta partecipazione. Buona Baba.  Il mio ateismo vacilla. Poi vedo un don europeo sui generis. Colonialismo travestito da cattolicesimo. E il mio ateismo si rafforza.

Dubbi? Certezze? La verità assoluta è solo per gli asini.

Abari. Oggi giornata finita. Adesso io e Ema cuciniamo amatriciana per Sister. Saremo 23. Dopo messa pranzo veloce solo io Ema e due Sister e poi partenza per Luniek. Con noi Aita e Kuya due ragazze del progetto Kanga. Le abbiamo riportate alla loro tribù. Tra 2 mesi torneranno per ricominciare scuola. Desolante arrivo a casa e incontro con nonna. Vi racconterò. Un paio di medicazioni piaghe per Ema e foto alla scuola. Mi sto affezionando al Toyota. Taxifurgonecorrieraambulanzaautocarrotrasportolegnamecarbonegranomaisclunicamobile. Con quell'odore misto di carbonesudorefumogasoliopuspisoliocatrameumoriamori. Mi sembra di sentirlo solo scrivendo. E voi? Lo sentite?

 

Lunedi 14 Novembre

Tutto il giorno clinica mobile torneremo per cena. Caricato tavoli sedie frigo con vaccini materiale farmaceutico vario cibo acqua.

Oggi clinica mobile a Mourak.

Qua tutto il giorno, speriamo di rientrare presto perché qualche giorno fa nelle vicinanze ci sono stati degli scontri con 6 morti...😱      

Oggi mobile cliniche 1h rally 4h servizio. Organizzatissimi sotto acacia Sister alla registrazione e cassa per chi può, dottore visita, Sister e Ema vaccinazioni bimbi polio tetano difterite tbc pneumococco ecc. Analista ai prelievi farmacista distribuisce. Io e Thomas carico scarico Toyota e aiutanti peso bimbi. Quasi tutti assistiti della tribù Samburu in lotta coi Pokote per vacche e terreni. Vicino a noi mercato e meeting sotto acacia per la pace tra tribù. Back driver Thomas. Sem coti.

Sister Maggie chiede se è la nostra prima volta ad Ol Moran. Col corpo si Maggie. Ma col cuore....con lo spirito....con la mente ci sembra di esserci venuti 100x

 

Martedi 15 Novembre

Sister Maggie chiede se è la nostra prima volta ad Ol Moran. Col corpo si Maggie. Ma col cuore....con lo spirito....con la mente ci sembra di esserci venuti 100x

Preso buca acc mezz'ora di lavoro per uscire

Non è successo niente, pole pole è stata tirata fuori dalla buca e poi via verso casa di Hassan!

 
 

Ol Monello

Ol Moran non esiste

Ol Moran è una chimera

Ol Moran è un pensiero

è un sogno che si avvera.

 

A noi solo descrizioni

di Vale maestra e amica

ma rimane evanescente

come la schiena di un signore

che altissimo sulla T-shirt

va camminando chissà dove.

 

Arrivo poi piano piano

con un viaggio di sei giorni

come un tour un'odissea

lunghissimo non invano.

 

Arrivo pole pole

Ol Moran non esiste

viene facile pur l'inglese

ma trovarlo è un'illusione.

 

Immensa la pianura

solo campi e savana

null'altro in lontananza

la mia ricerca sembra vana.

 

Poi lo sguardo è colpito

da alberi slanciati

che a gruppi danno frescura

a nascosti abitati.

 

E verso uno punto il Toyota

dalle più e più funzioni

distanze kilometrali

non svaniscono le illusioni.

 

Fermo è il motore

i passi attaccano il vialetto

in mezzo al grano quello turco

appare enorme il signore.

 

È quello della maglietta!

Oddio non pare vero

fermo è anche il suo vagare

amore ha trovato davvero.

 

Mamma figlia e nipote

senza nulla ma ricchissime

non di beni lo han riempito

ma di quel che ognuno vuole.

 

E ne prende in abbondanza

altrettanto ne ricambia

muto mai non parla

ma moltissimo ci dice.

 

"Tre donne the community

portano avanti il mondo intero

lo vedi tu turista

io son Musa com'è vero.

Il mio errare sulla maglietta

di schiena in schiena su in Beseno

serva almeno a tante genti

qui e là pur differenti.

V'ammonisco: uguale è la vita

come uguale è la morte

non così la nostra sorte.

E questa fortuna per noi diversa

non sia alibi per odiare

che ciascuno trovi nell'altro

un buon motivo per amare.

 
 

Dove vai forestiero?

Non ho finito ancora

che nessuno in ogni dove

lo sia più, straniero."

 
 

The end.

 

Ci vediamo a scuola.

Bye, qweri, ciao Pietro

 

 

 

Mercoledi 16 Novembre

In partenza

 

Giovedi 17 Novembre

Ai genitori, al gruppo insegnanti, all'amministrazione e alla comunità di Besenello

Non sono tipo da grandi discorsi. Sono sempre stato più bravo a scrivere che a parlare. E allora vi ringrazio. Ho percepito i miei alunni, un intero paese ma soprattutto tutte/i voi come i miei sponsor. I miei sostenitori. Mi sono sentito ambasciatore di una comunità, di un'idea di solidarietà ben precisa. Io, Ema e Thomas lo abbiamo vissuto in ogni istante. In ogni discorso, in ogni azione. Senza retorica voglio dire che grazie a questo vostro sostegno empatico abbiamo vissuto 2 settimane bellissime, intense e indimenticabili. E saranno ancora più belle le prossime.

Ciao

Pietro

Kenya 2014

Resoconto del viaggio ad Ol Moran di Valentina - luglio 2014

Sarebbe molto più semplice consegnare la pellicola al negoziante per realizzarne un album, ma l’azienda che rassetta i ricordi non è ancora stata inventata. Accettate quindi questo mio istintivo flusso di coscienza, che solo oggi, dopo un letargo dovuto all’assestamento emotivo post rientro, ha deciso di uscire. Sconclusionato, impreciso e confuso ma frutto di un viaggio così intenso da aggiudicarsi il podio tra i miei vissuti esperienziali. “Ciao Francesca, ci vediamo tra quindici giorni: tornerò da te con una nuova storia raccontata sulle pagine fitte di un diario. Da grande, saprai farne buon uso”. Ultimo bacio fugace alla mia bambina ed ho chiuso la porta, pensando che due settimane senza la sua presenza sarebbero state lunghissime. Ho però cercato di andare oltre le emozioni superficiali e, allargando il cono di luce, ho evitato di cadere nella trappola di infondati sensi di colpa. Ho gettato via anche il copione sbagliato fidandomi dell’istinto e delle parole rassicuranti di chi, là, ci stava aspettando. Se io e i miei compagni di viaggio avessimo dato retta alle notizie angoscianti trasmesse in televisione, a quest’ora sarei qui a raccontare ciò che avrei perso, a livello di arricchimento personale, ad aver disdetto la partenza. Invece questo scritto parla del mio matrimonio, della mia immensa felicità oppressa dallo strazio della sofferenza, parla di amicizia, di insegnamenti e di bambini. L’essere diventata mamma ha connotato il viaggio di un carico emotivo diverso rispetto al passato, una nuova sensibilità che mi ha colto impreparata e fragile davanti a crudi e inaccettabili contesti di vita. Una condizione interiore che non mi ha permesso, al rientro, di dare libero sfogo alla mia voglia di raccontare, non per incapacità di condividere l’ossimorica ricchezza acquisita, quanto piuttosto per un’inadeguatezza nel trasmettere l’intensità di ciò che è stato. Il rischio era ricadere nello stereotipo dell’immagine che smette di essere utile come denuncia per sconfinare in altri campi. In ogni bambino ritrovavo Francesca: l’assetto di questa frase è certamente più letterale che metaforico perché il contatto diretto con l’ambito infantile, così altamente bistrattato, andava a collimare con il pensiero costante a noi e solo la semplice immedesimazione aveva la potenzialità di mandarmi in blocco. Ad Ol Moran ciascun bambino è portatore sano di una storia malata perché, pur avendo sulla groppa un fardello più grosso del proprio peso, non ne manifesta i sintomi e si presenta allegro e felice, davvero felice, di aver vicino qualcuno, anche solo per una visita di passaggio. Si tratta di storie che entrano nella pelle da quanto sono laide ed ingiuste eppure contraddistinguono persone che, pur avendo un ventaglio di possibilità infinitesimale rispetto al nostro, sembrano conoscere il gioco della vita molto meglio di noi. Sanno adattarsi, accettare o forse subire la piana disperatamente piatta in cui si trovano a vivere.

Ricordo benissimo la visita presso la scuola nel villaggio di Muarak: era giovedì 10 luglio e, per arrivarci, si era resa necessariauna gincana di ore tra gli arbusti stepposi della savana. Abbiamo perso l’orientamento più volte a causa della vastità del territorio: un orizzonte così piatto da apparire come una linea dritta e percorribile, ruotando su se stessi a 360°, con il tracciato di un dito. Eravamo lì, immersi nel più sconfinato paesaggio mai visto prima: in lontananza delle nubi scure capaci solo a creare false illusioni negli abitanti spossati dall’incombente, forte siccità; più in là un branco di zebre e una mandria di smunte mucche al pascolo guidate da un pastore Samburu. In mezzo al nulla, poi, ecco la scuola: un piccolo edificio con le mura di terra rossa e bastoni di legno. Ad accoglierci una ventina di bambini con il giovanissimo maestro Stephan, ai miei occhi l'archetipo di vero uomo per i valori che ha dimostrato possedere. Avremmo dovuto far loro visita il mercoledì, ma il cibo mancava anche per quella giornata e così l'insegnante ha sospeso le lezioni, risparmiando ai suoi alunni il quotidiano, lungo tragitto a piedi che avrebbe costato energia e sacrificio. Quel ragazzo, appena ventunenne, alto e talmente magro da dover ricorrere ad una cinta per tenere saldi i pantaloni alla vita, si è presentato a noi come un perfetto esempio antitetico rispetto alla figura maschile del luogo. Alle spalle un curriculum formativo alquanto scarno, la semplice licenza elementare, reso però encomiabile dalla ferma determinazione nel trasmettere il proprio sapere. “Stiamo cercando di premiare la sua bontà e, per quello che possiamo, lo aiutiamo economicamente per partecipare a qualche seminario organizzato presso Hekima School”. Sister Monica mi parlava a bassa voce, quasi a non voler minare la dignità di una persona eccezionale che, con i soldi del suo primo stipendio, aveva comprato dei fogli di grande formato sui quali aveva scritto le regole base della grammatica inglese, appendendoli in seguito nella SUA scuola, rendendola meno vuota. Quel giorno aveva fame anche lui, era facile capirlo e, quando le suore che ci accompagnavano gli hanno offerto un umile pasto, lui ha ringraziato, tenendolo tra le mani. All'occhio accorto però non sfuggono mai certi precetti: si era guardato attorno e, convinto che nessuno lo stesse guardando, aveva ripartito l'intera sua razione ai due bambini più in difficoltà...quegli stessi bambini il cui solo ricordo sa essere talmente chiassoso da trasformare in silenzio l'allegro trambusto delle ricreazioni scolastiche che scandiscono il mio lavoro. I suoi alunni, intanto, cercavano di capire come mangiare la banana perché un frutto simile non l'avevano mai visto. Tipicamente africano sì, ma nella terra dimenticata da Dio sono pochi i prodotti locali: mais, fagioli e ancor mais e fagioli e di nuovo mais e fagioli, regime dietetico di un'alimentazione bilanciata che, tra il resto, a causa della mancata stagione delle piogge, potrebbe ridimensionarsi ulteriormente. In macchina è stato semplice, con tutti, parlarsi tacendo: solo i Beach Boys e la loro Barbara Ann, che si ripeteva a causa di un difettodel mangiacassette, riuscivano a far sentire la loro voce. Non ci importava dei cammelli, del panorama mozzafiato, né dei facoceri e dei branchi di gnu: l'immagine dei bambini che ci salutavano festosi, nonostante il niente, offuscava qualsiasi possibilità di nitida visione. Vorrei allontanarmi dalla restituzione di un'inflazionata, banale e scontata fotografia dell'indigenza vista, ma il pensiero costante a specifici ricordi incombe su tutto il resto: ancora adesso sto pagando il debito emotivo e, come mi ha suggerito un caro amico, scrivendo di getto, al di là dell'elevato rischio di ricadere nella superficiale retorica, dichiaro l’amnistia e mi sento meglio, anche solo per l'idea di condividere con i miei affetti una fetta importante di vita.

Dunque il viaggio della memoria mi riporta ora a Lonyek: tappa, questa, antecedente alla visita al mio “eroe” di cui sopra. Martedì 8 luglio, dopo aver fatto sosta al caotico mercato della town, siamo partiti alla volta del piccolo villaggio dal quale provengono Kuya e Aita, due bambine del progetto che molti ricorderanno perché il loro reciproco legame va oltre l'amore fraterno, è un qualcosa di indissolubile e puro: sorelle di sangue e sorelle nell'animo. Un'unione, la loro, veicolata da una comunicazione in silenzio perché Aita è sordomuta e Kuya, non solo sa parlare perfettamente la lingua dei segni, ma sa anche interpretare ogni minima sfumatura del modo di esprimersi della sorella: sguardo, postura, gesti delle mani, tutto concorre a rendere completo il discorso. “Andremo a visitare la scuola primaria del villaggio: purtroppo lo Stato si disinteressa e la situazione è difficile. Sarà per voi un duro colpo!” Constatare che le parole di Sister Jerrioth erano più che veritiere non è stata una gran consolazione. “Wageni ni baraka” è un proverbio swahili che più o meno significa: “Gli ospiti sono una Benedizione”. Ed è davvero così: l'accoglienza che ci è stata riservata è stata memorabile a tal punto da farci sentire a disagio perché anzitutto discrepante rispetto al supporto, pari al nulla, che abbiamo portato con noi. Da ciò si evince che, quasi sempre, si tratta di un'ospitalità non interessata o contaminata da secondi fini, come invece, parrebbe umano pensare. A fare da cornice, una struttura in legno ormai logoro con il tetto in lamiera e una secca aiuola al centro del cortile con un grezzo campanello manuale, utile a cadenzare le ore scolastiche. In primo piano, invece, una moltitudine di bambini, alcuni in uniforme, altri no, alcuni con dei sandali di gomma, altri a piedi nudi e con ferite aperte e profonde, provocate dal lavorio inarrestabile delle zecche. Ci siamo presentati, mentre loro ascoltavano, curiosi, la traduzione in swahili dell'autoritario insegnante il quale teneva tra le mani un bastone, tipico strumento del metodo educativo adottato, che legittima l'uso della violenza e delle punizioni corporali. I più piccoli erano in fila davanti ad una capanna per ricevere la razionegiornaliera di cibo: una donna raccoglieva, da un capiente tegame in alluminio, del getheri, piatto tipico a base di legumi ed ogni bambino, a turno, porgeva il proprio recipiente affinché venisse riempito. Chi possedeva una ciotola godeva di una porzione maggiore rispetto ad altri, i quali usavano degli oggetti arrangiati come tappi di plastica di grandi flaconi di biscotti industriali ma comunque, per tutti, la dose non poteva in alcun modo superare la capienza della piccola scodella che la cuoca teneva tra le mani. Gli ultimi della fila hanno atteso invano il loro turno: il cibo era finito, ma il pensiero “confortante” che l'indomani sarebbero stati tra i primi a riceverlo, e quindi il digiuno sarebbe toccato a qualcun altro, attenuava certamente il loro malessere . Una maschera spuria in grado di soffocare l'inevitabile tristezza: ecco cosa serve quando ci si confronta con un paradosso che non può essere spiegato razionalmente. Sbagliato lasciar trapelare dispiacere e sconforto: un simile mix lo si deve sprigionare altrove, lontano dagli occhi di chi, quel paradosso, lo vive ogni giorno, evitando così di scalfire grossolanamente la dignità della persona. I miei amici, in questo, si sono dimostrati molto più diplomatici e preparati di me. Certo, la domanda -“Voi a casa vostra come sopravvivete?”- Rivolta a Giulia dalla maestra ha destato un'eco non indifferente, ma lo sgomento è stato espresso in seguito: in quel momento era più importante vivere appieno un momento di confronto con balli, canti, strette di mano e tanti sorrisi in un girotondo in cui, la tristezza ineluttabile, si confondeva perfettamente con gli altri, positivi sentimenti. Nelle ore successive ho riflettuto molto sul concetto di “normalità” e, immersa in un mondo così distante dal mio, mi sono ritrovata ad estenderlo nel suo significato. Normale avere acqua e cibo centellinati ed una sfera d'azione circoscritta ai chilometri che si percorrono a piedi da casa a scuola? E ancora, normale ritrovarsi recluso nella propria capanna per intere giornate al buio, forse legato e con un'invalidità tale da non poter muovere autonomamente gli arti? Sì, ad Ol Moran rientra nello spettro della cosiddetta normalità o come qualsivoglia chiamarla.

Ed è così che il nostro indimenticabile viaggio ci ha portato ad incontrare anche Alex, un ragazzino disabile, la cui abitazione si trova immersa nel verde, a pochi ettari di distanza dalla shamba delle suore. Un incontro che per essere descritto necessita del modo condizionale perché si sarebbe di fatto concretizzato se, a separarci, non ci fosse stata la porta della capanna chiusa con il lucchetto. Lui dentro, noi fuori: “Habari yako, Alex?- Stai bene, Alex?” Chiedeva con insistenza la Sister mentre noi cercavamo le chiavi, forse nascoste dietro qualche sasso del cortile. Dalle piccole fessure della parete non si poteva vedere nulla: l'interno era troppo cupo e nemmeno la luce della torcia permetteva di illuminare il sito. Il bambino rispondeva con deboli gemiti: erano le undici del mattino e chissà per quante ore avrà atteso il rientro della zia. Lei deve lavorare la terra, non hatempo per seguire il nipote. Non ha tempo soprattutto perché Alex non è un lattante, ma è un “dis-abile” e ciò fa di lui un “dis-adattato sociale”: il suffisso della parola, purtroppo, riflette perfettamente il codice morale del luogo che, ad oggi, considera l'handicap un castigo trascendentale, la punizione umana congrua al peccato commesso da qualche avo o, forse, dai genitori stessi. Alex impersona la colpa e, come tale, non merita altro che un'esistenza isolata, nascosta e non considerata. Questo è lo scotto da pagare per chi nasce nella parte sfortunata del globo, sena ma e senza se: fatalmente, purtroppo, è così. Tornando con la mente a quella mattina, il sole era l'unico elemento nel cielo azzurro e terso: i colori erano nitidi come quando, dopo la tempesta, torna il sereno e tutto sembra indossare una veste più luminosa e pulita. Agli occhi dei visitatori uno spettacolo naturale, per gli abitanti che subiscono i danni provocati da quell'atipico genere di maltempo, una giornata di frustrazione e speranza sopita. Abbiamo ultimato le visite domiciliari portando a casa una gallina, dono di una mamma, la quale, dopo un lungo percorso, sta imparando ad accettare la sua dolce Durkas: una grave disabilità, il peso dello stigma sociale con il quale convivere e un gran dolore alle gambe, almeno da ciò che la sua postura innaturale permetteva di ipotizzare. Era seduta sull'uscio di casa e il suo sguardo abbassato lasciava intravedere un sorriso di compiacimento: era felice della nostra presenza e la voce amica di Monica le dava sicurezza. Durkas ha dodici anni, è una ragazzina spastica e da alcuni anni frequenta una special unit di un villaggio a trenta chilometri da lì. Durante i periodi di interruzione scolastica torna a casa, trascorrendo le giornate con l'anziana nonna, mentre la madre lavora a cottimo nei campi circostanti. Certo, le condizioni igieniche in cui versava erano pessime, ma la consapevolezza che, sia pur lentamente, l'affetto dei suoi familiari si sta manifestando, rendeva quel degrado materiale meno intollerante. Sister Monica era di una bellezza epica intenta a parlare con Durkas e, osservandola, mi chiedevo se tutta una vita mi basterà mai per imparare ciò che mi ha insegnato lei in pochi giorni. Sa entrare in empatia con chiunque: coglie le necessità di chi non può esprimersi e sa affrontare ogni situazione con ottimismo, energia e determinazione. Se narrasse la sua esperienza quotidiana, diventerebbe, senza dubbio alcuno, la vincitrice del Premio Pulitzer per la denuncia sociale dei prossimi sessant'anni. Con lei il mio senso dell'umorismo ha raggiunto nuovi livelli di maturazione perché la sua spontaneità nel sdrammatizzare i problemi mi ha permesso, più volte, di vivere situazioni difficili con il sorriso sulle labbra.

Le parole espresse con lo sguardo di Chocolate di pura ammirazione e riverenza nei suoi confronti ne sono la testimonianza più concreta. Inoltre, la scena in cui Monica trasporta in carrozzina la nonna del ragazzo con le gambe all'aria è proprio il fulcro della pellicola di immagini indelebili di cui scrivevo all'inizio di questo miolungo sermone. Chocolate arrivava ogni mattina presso la Casa dei bambini, seduto sulla sedia a rotelle di legno e ferro. Alcuni mesi fa le sue condizioni di salute erano critiche e la sua età era di poco inferiore al peso corporeo: ventitré anni per ventotto chilogrammi. Viveva all'estremità di quella linea liminare oltre la quale c'è la dipartita e la sua esistenza era circoscritta alla capanna. Poi, quella che era la sua barriera più grande, l'invalidità che aveva portato ad una grave atrofia muscolare, si è trasformata in un connettore e da lì è iniziata la sua rivincita. Seguito dalle suore, ha iniziato a mangiare ogni giorno e, recuperando energia, ha mosso i primi passi. Era lunedì 7 luglio quando l'ho visto camminare: rigido e affannato per lo sforzo si sorreggeva tra Manuela e Giulia. Era stanco ma felice, sono certa che avrebbe percorso quel viale infinite volte pur di allungare la possibilità di contatto con loro. Sto divagando, ma è colpa del ricordo e la sua potenzialità di trasportarmi, ancora una volta, proprio là dove l'ho vissuto. Stavo raccontando della capacità di Monica di trasformare in positiva la circostanza ostile: la nonna inveiva contro Chocolate perché faticava a sedersi. La situazione stava precipitando se non fosse arrivata LEI con uno spago tra le mani pronta a legarle le gambe, facendola quindi sedere in carrozzina con ovvia difficoltà. Era buffo e insolito vedere una “matta” vestita in bianco correre in pendenza spingendo una sedia a rotelle con a bordo una donna legata che si aggrappava ai braccioli. Per Chocolate è stato un momento di divertimento, per la nonna un monito veicolato dallo scherzo che recitava più o meno così: “Con una corda alle ginocchia sei totalmente bloccata, tuo nipote con una malattia conclamata è in piedi ed è l'incontrastato trionfatore”. Questo ed infiniti altri insegnamenti, impartiti ad Ol Moran da grandi personalità di ogni generazione, mi hanno portato a vivere un'avventura che ha liberato la mia mente da tutto ciò che, di futile, la ingombrava, incrementando di molto la mia capacità di rimanere sinceramente sorpresa di fronte alle piccole e ovvie meraviglie che spesso, in precedenza, davo per scontate.

Ed è stato in occasione del NOSTRO GRANDE GIORNO che ho cercato, attraverso le parole, di esternare il mio grazie sincero per tutto quello che era stato fatto per noi. Una festa indimenticabile, preceduta da una Vigilia di preparativi e allestimenti che ricalcava la stessa, magica atmosfera che si vive in occasione di ogni Kanga Dei. Si tratta di un clima di benessere, collaborazione e supporto che rende tutto, compreso il visibile, più bello e suggestivo. La suddivisione dei compiti, gli inaspettati rimescolamenti di dialetto trentino impartito dal nostro Little (Peaceful) Warrior con l'idioma kikuyu delle sue aiutanti, le prove di ballo dei bambini e la regia scenografia dal significato criptato di Eli e Manu; il chapati in padella e i primi passi di Bryan tra le braci ardenti; i disegni; le lettere e il ricarico emotivo di abbracci e voglia di raccontarsi; le imprese eroiche degli uomini nostrani e il rigoroso addestramento della giunonica SisterFelicia...tutti si adoperavano per un fine condiviso ed era un contesto talmente sentito, che il tempo si sarebbe potuto fermare per anni senza il rischio di cadere nella monotonia. Su richiesta delle sisters, una cinquantina di bambini del progetto avevano potuto assentarsi da scuola per il week end ed erano arrivati ad Ol Moran, alcuni su un matatu noleggiato, altri sul pick up che funge da ambulanza. Erano esaltati all'idea di partecipare al matrimonio: ne parlavano ormai da molto tempo e questa benefica attesa ha esaltato ancor di più l'entusiasmo e la gioia nel rivederci. Era mattina, ho bevuto il mio caffè in un solo sorso: trepidavo dalla voglia di rivederli. C'erano quasi tutti: Nancy, Jeroghe, Elisabeth, Lita, le gemelline, Kevin, Lucya, John, non riuscivo a contenere la mia emozione, eravamo tutti lì, ancora una volta insieme, e le parole uscivano tremanti. Virginia piangeva dalla felicità e, mentre mi abbracciava, mi ha consegnato una lettera che racchiude in sé il regalo più grande e prezioso che una persona possa desiderare. Lei non è una bambina qualunque: ha una profondità che non conosce eguali e la sa esternare in modo spontaneo e diretto.

“Ricordami qual è il giorno del tuo compleanno?” Tra le altre cose che ci siamo dette, sono uscita anche con questa domanda, che in quel contesto, è risultata superficiale ed imbarazzante. La sua risposta mi ha però dato lo spunto per consolidare ancora di più il nostro legame: “Non lo so, i miei genitori non ci sono più e la nonna non sa né il giorno né l'anno in cui sono nata!” Abbiamo così deciso che i nostri compleanni coincidono e che dodici anni corrispondono ad un'età che potrebbe essere la sua. Era esultante per aver completato un tassello del suo puzzle: anche se basato sulla fantasia, si è trasformato in un pezzo importante per dar forma concreta alla sua identità. Rideva, piangeva, ballava e batteva le mani. Lo facevo anch'io: la sua gioia era la mia.

La cerimonia, il giorno seguente, è stata intima, profonda, semplice e intensamente vissuta: le danze dei bambini ci hanno portato all'altare al ritmo di bonghi e sonagli mentre le parole e le manifestazioni di affetto in swahili, italiano ed inglese hanno reso tutto perfetto. Io e Tommi abbiamo coronato un grande desiderio circondati da veri amici ed è stata la scelta più giusta che potevamo fare: il nostro matrimonio ad Ol Moran è un patto di amicizia perenne, la garanzia di un legame che oltrepassa qualsiasi confine. Questo è il riassunto del mio viaggio laggiù, dove vive Virginia che il prossimo sette ottobre compirà il suo “primo” compleanno. Perdonate il mio essere prolissa, è uscito tutto di cuore

Valentina

Kenya Natale 2011

Resoconto del viaggio fatto da Elisa a fine 2011 ad Ol Moran, buona lettura!

Rovereto, 13 febbraio 2012

 

E’ passato più di un mese dal nostro ritorno da Ol Moran, eppure solo ora riesco a guardare con tranquillità e attenzione le centinaia di foto che quattro macchine fotografiche hanno scattato in continuazione. E’ incredibile come la nostra vita così frenetica e veloce sia così lontana dalla quotidianità di Ol Moran e della sua gente, dove c’è sempre tempo per qualcuno, c’è la pazienza di aspettare, la disponibilità ad ascoltare, la voglia di conoscere e guardarsi negli occhi.

Siamo partiti in quattro, curiosi di conoscere e di rincontrare le fantastiche Suore e i numerosi grandi occhi dei bambini che ci attendevano.

Non serve dire che l’accoglienza delle suore è qualcosa che ti spiazza e ti mette veramente in imbarazzo per quanto riescano a farti sentire l’ospite tanto atteso e l’amico da riempire di attenzioni e da festeggiare al meglio, nonostante la giornata faticosa, la luna storta, le tristezza quotidiane. La loro fede, poi, rimane qualcosa di inspiegabile, che ti fa rimanere a bocca aperta, ma questa è un’altra storia..e fin quando non si vede con i propri occhi è difficile da capire J.

Lungo la strada per Ol Moran mi sono chiesta se ero davvero nel luogo dell’agosto 2009, in quel deserto rosso desideroso di acqua e di vegetazione, perchè ai miei occhi è apparsa una distesa verde di arbusti e alberi, campi coltivati, perfino numerosi laghetti e mucche in carne, bambini al pascolo con capre finalmente non anoressiche e donne lungo la strada con il raccolto sulle spalle (oltre al bambino nel kanga e l’acqua nel recipiente sopra alla testa ovviamente). La pioggia, il bel tempo come la chiamano loro, è stata copiosa quest’anno, e ha permesso alla gente del posto di poter ottenere un raccolto abbondante, di vivere in pace e con un briciolo in più di serenità.

Da settembre c’è una grande novità vicino alla casa delle suore, è stata inaugurata la casa dei bambini, una magnifica struttura dedicata e pensata per i bambini della zona, con una grande sala, dei bei bagni con doccia e lavandini adatti ai più piccoli, una cucina spaziosa e un paio di stanze per ospitare bambini con situazioni particolari o per le emergenze.

Questa struttura è stata costruita grazie ai risparmi attenti delle suore, ci raccontavano che l’anno scorso per risparmiare anche poco a Nairobi si spostavano a piedi, rinunciando a prendere l’autobus per andare in città, oppure hanno rinunciato per lungo tempo a mangiare la frutta, perché molto cara. Sono rimasta davvero colpita da questo racconto, immediatamente ho pensato a me, alla mia incapacità di rinunciare a qualcosa di essenziale o importante per la mia giornata, queste donne sono davvero incredibili. Ho pensato anche a tutte le persone che in questi anni hanno contribuito sia economicamente che con il loro tempo, le loro idee, le loro energie nel progetto “Kanga per Ol Moran”, perché se questa casa è così oggi è anche grazie a loro; a tutti loro (a tutti voi) va il mio grazie e il grazie delle suore che instancabilmente mi è stato ripetuto per tutto il periodo.

I bambini del progetto sono cresciuti, sono diventati grandi, furbi, intelligenti, attenti; sanno l’inglese come ridere ed è meraviglioso vederli giocare insieme, sono davvero amici tra loro: si fanno delle chiacchierate infinite, in ogni momento, in ogni luogo, delle risate coinvolgenti, si vede che sono molto legati, che si sostengono a vicenda con un’attenzioni da adulti ma senza perdere la spontaneità e la semplicità che caratterizza ogni bambino. Questa è un’altra cosa fantastica che le suore hanno fatto: sono riuscite a creare come una famiglia alternativa per ognuno di questi bambini, fatta di coetanei sui quali poter contare per tutta la vita. Perché se poteste vedere Hassan e Cuia, Virginia e Paul, Haita, Kevin e Nancy, o Peter e David, vi rendereste conto che si vogliono davvero bene.

    

Il periodo di Natale e Capodanno è un momento pieno di cose da fare, da preparare, il movimento nella casa delle suore non manca mai, ma l’attenzione è rivolta principalmente al concorso per il Presepio più bello e alla Festa per i bambini, oltre alle numerose celebrazioni liturgiche.

Girare per tutta la parrocchia di Ol Moran (che è davvero grande) per vedere un sacco di presepi fatti dai bambini all’interno delle chiese, è davvero un’esperienza meravigliosa, soprattutto perché i presepi sono diversi dai nostri! La madonna è sdraiata vicino a Gesù, le statuine sono bottiglie con attaccata una fotografia, ci sono un sacco di fiori sopra la capanna, ma la cosa che più stupisce è che per costruire questo presepio non ci si è limitati ad aprire lo scatolone delle statuine e posizionarle sotto la capanna, ma si è camminato per lunghe ore per arrivare alla Chiesa, si è rischiato la vita, attraversando il territorio della tribù rivale, per poter costruire all’interno della chiesa di appartenenza il miglio presepe possibile, e anche questo fa riflettere….

La festa dei bambini è stata una giornata indimenticabile, preceduta da intense giornate di preparativi da parte dei bambini, per provare i canti, i balli e la recita, per le suore, nell’adornare in modo adorabile tutta la casa e organizzare al meglio ogni momento e per le mamme e le persone che aiutano nella casa, per la preparazione del grande pranzo.

La stanza ha avuto per la prima volta la possibilità di ospitare più di 175 bambini con altrettanti adulti, è stata celebrata una messa indescrivibile, animata interamente dai bambini, con canti, danze e tanta felicità. E’ stata seguita da una momento di musica, organizzato dai ragazzi della parrocchia e poi dal pranzo tutti insieme e da un menu da festa con ciapati (un pane che si fa solo per le occasioni importanti) e la carne. Potrei stare qui a descrivervi ogni momento di questa giornata, ma non smetterei più di scrivere, quello che posso dire sinteticamente è che questa gente riesce a stare insieme perché crede nella comunità, perché ama la compagnia e la ricerca, attraverso la comunità supera gli ostacoli che questa ingiusta vita riserva continuamente.

Durante questa meravigliosa giornata è come se la felicità di stare insieme abbia accantonato anche solo per un attimo la nostalgia negli occhi di Poul della sua mamma, morta per colpa dell’Aids (brutta bestia in piena e instancabile corsa) l’anno scorso mentre andava a prendere la nipotina in un villaggio poco distante da Ol Moran, oppre la tristezza delle due sorelline figlie di Maria, giovane donna ammalata di tumore al cervello all’ultimo stadio, costretta a stare sdraiata nella sua capanna con piaghe enormi e dolori atroci, tra odori, galline e cani,o la fatica della nonna di Kevin, per prestare le dovute attenzioni al nipote colpito da meningite e ora gravemente disabile.

 

 

Ma il regalo forse più bello è arrivato proprio il giorno di Natale quando due fratellini (che non parlano e non si sa il perché) hanno bussato alla porta e le suore hanno regalato ad ognuno un paio di scarpe e una felpa nuova, non avevo mai visto un bambino che non riesce a camminare con un paio di scarpe perché non le ha mai messe…i loro occhi sprizzavano felicità da ogni parte, continuavano a toccare le scarpe increduli, provavano a sbattere i piedi per capire se stavano sognando oppure no, ballavano dalla felicità ma solo con le braccia e il busto perché i piedi erano come incollati a terra. Che momento! Che regalo di Natale!

 

Questa è Ol Moran, ma purtroppo sotto c’è un peso e una realtà davvero difficile:  passata l’emergenza siccità, si ritorna alla normalità dove l’Adis (che non si nomina ma si dice “quella brutta malattia”) è davvero una brutta bestia, che silenziosamente sta facendo strage, sta sterminando intere famiglie. Il costo della vita non è aumentato solo da noi ma anche e soprattutto nel terzo mondo, e quindi anche in Kenya, lo zucchero e i fagioli (molto usati nell’alimentazione locale) hanno raggiunto costi mai visti, per non parlare della benzina, una cosa scandalosa. La corruzione è all’ordine del giorno, la fatica e la disperazione della gente è tanta. Nonostante questo però, la gente è di una bontà disarmante, basti pensare che tra le famiglie dei bambini del progetto è nata l’idea di contribuire alla festa con 100 scellini (quasi un euro, che per loro è tanto) per ringraziare le suore e noi volontari del lavoro fatto per i bambini. 

E’ proprio vero, le persone meno hanno e più ti vorrebbero dare!

Il sogno delle suore è quello di poter consegnare tutta la gestione della casa e l’attività con i bambini alla comunità di Ol Moran, per continuare la loro filosofia di vita dove anche il più povero e l’ultimo può dare qualcosa all’altro e può prendersi le proprie responsabilità. Il lavoro è ancora all’inizio ma sono certa che ci riusciranno, la partenza è stata più che positiva, per il resto si vedrà.

Avrei da scrivere un sacco di altre cose…ma mi fermo qui..un po’ ho scritto per il resto racconterò a voce…ultima cosa..per gli amici del Kanga…vi lascio la bambini dagli occhi del Kanga, Lita, che è cresciuta silenziosamente ed è più bella che mai.

Grazie di cuore ad ognuno di voi per tutto quello che avete fatto e continuate a fare (e non lo dico come frase fatta ma perché lo sento veramente!)

 

Elisa

Kenya 2011

Diario di viaggio di Valentina - agosto 2011

Rovereto, Lunedì 22 agosto

RIEPILOGO

Due settimane di silenzio. Nel frattempo sono rientrata e ho avuto modo di metabolizzare l’esperienza fatta: frustrazione, collera, sensi di colpa, disagio, felicità, illusione, amarezza e sconforto inseriti nei vari tasselli a completare il puzzle. Ho una panoramica generale, ora posso scrivere, dando le opportune giustificazioni alla mia decisione.

Ad un certo punto, il contatto diretto con la sofferenza e il dolore mi hanno condotta ad una sorta di apatia verbale, incapacità di comunicare ciò che mi circondava, oppure, semplicemente, paura di turbare o non turbare affatto le coscienze. Mantenendomi in una terra ibrida lontana dai due eccessi avrei rischiato di inviarvi mail superficiali, per niente corrispondenti ai miei giorni là: avrei scritto della bellezza della flora e della fauna endemici del luogo, del tempo atmosferico, avrei riportato fedelmente le scansioni della cronistoria esperienziale ma non ci sarebbe stato alcun accenno alla morte e allo strazio che il destino infligge a chi di colpa non ne ha alcuna. “Occorre far veloci, stiamo perdendo il bambino”, “Tre ospedali ci hanno chiuso le porte: è troppo grave e non abbiamo abbastanza soldi”, “Non c’è l’incubatrice, scaldiamolo con il phon”. Ed infine, la frase inevitabile, che da una parte, in assenza di speranza, dà sollievo e dall’altra scatena emozioni di rabbia e non si vorrebbe mai sentir pronunciare: “E’ morto”. Si chiamava Paul, i suoi giorni di vita sono stati 10.

Flash di reminescenze, immagini visive che tornano forti alla mente, lo sguardo di Camilla che dice più di qualsiasi parola: afflizione, senso di impotenza e dolore che portano ad una lotta impari con l’ingiustizia terrena. Se la tenacia potesse essere personificata, avrebbe proprio il suo volto: classe 1986, medico, bella sotto ogni aspetto, determinata nel tentativo di far scorrere più lentamente la sabbia nella clessidra, migliorando la qualità di ogni singolo granello. Ha toccato con mano certe note di dolore, si è rialzata e ha deciso di far medicina, e forse, proprio per questo, lei più di altri è in grado di capire la sofferenza. Elogio alla gioventù, a dispetto di chi dice che le nuove generazioni sono un ammasso di debosciati senza ambizioni. Il suo unico credo religioso è quello di fare il proprio dovere nel migliore dei modi in una sintesi di etica professionale e grande umanità. Nessuno cambia il mondo, nemmeno lei che ha fatto l’impossibile per aiutare il bambino, ma dal suo modo di vivere ho da imparare molto: è stato questo incontro, così inaspettato e speciale che ha reso la mia esperienza ancor più arricchente e unica.

Torno in Italia un po’ spaesata, ancora scossa dalla breve storia di Paul…eppure dovrei sapere che di Ol Moran e di Paul, il mondo è pieno.

Ecco che allora l’assillo continuo e costante di garantirmi un lavoro sicuro, di risparmiare in vista di un prossimo acquisto di un immobile e di proteggermi dall’inflazione si fa meno molesto. Avverto una sorta di insofferenza a rispettare il protocollo, comportandomi nella maniera che la società ritiene giusta. Ma fino a che punto si può decretare il giusto o sbagliato di un’azione? Dalla prassi sociale? In questo mi ritengo un’anticonformista e ne vado fiera, anche se ammetto che a volte, la tentazione inconscia di ricadere nella logica triste di un pensiero livellato e qualunquista, basato su luoghi comuni e stili di vita standardizzati, mi rende una pedina inconsapevole. Occorre la lezione di Ol Moran per rimettermi sui binari, riconducendo le preoccupazioni su temi più alti e meno individualistici. Per esempio, quali sono le cause recondite che non permettono di attivare un principio di sviluppo nel cosiddetto Terzo Mondo (termine, questo, a mio parere infelice e inappropriato, come se di mondi popolati da uomini ce ne fossero a bizzeffe…)? Si provi a pensare al surriscaldamento del clima: cosa succederebbe se Asia e Africa disponessero di una ricchezza materiale pari alla nostra? In altre parole e portando ad estremi banali il discorso, la famiglia italiana dispone mediamente di una, due automobili…e se fosse lo stesso nella parte del Globo che noi guardiamo da lontano con occhi pietosi e pieni di compassione? Probabilmente, a quest’ora, non sarei qui a scrivere e ad interrogarmi. E allora mi sorge il dubbio, avvallato da una lista spropositata di scelte illogiche prese dall’alto, che la condizione di miseria totale in cui versano migliaia e migliaia di persone sia in parte voluta e dettata da un fine di puro egoismo. Spostando l’attenzione su un altro tema, pur sempre affine in termini di interessi, quanto denaro è stato impiegato per il vergognoso sforzo bellico contro il Raìs libico? Non poteva essere utilizzato diversamente? Le cancellerie europee hanno intrapreso decisioni illogiche, tramutando l’intervento in uno squallida campagna aerea a fianco degli insorti. Come si può ben capire, lo sperpero di denaro in armi non manca mai. Ciò che manca è l’idea di cambiamento, la volontà di fare un passo indietro e mettere in discussione certi stili di vita a scapito della sopravvivenza di un numero infinito di persone. Chissà, poi, se le recenti preghiere del Papa a Madrid e dei giovani, che, coraggiosi, imperterriti e devoti hanno ripercorso l’antica via crucis della capitale spagnola, sono serviti ad alleviare le pene di chi, la via crucis l’affronta sul serio. Lo chiederò ai bambini di Ol Moran, poi vi farò sapere.

Termina qui lo zapping tra i canali dei paradossi umani, forse provocatorio, certamente sentito.

 

Valentina

Kenya 2011

Diario di viaggio di Valentina - agosto 2011

Ol Moran, Mercoledì 03 agosto 2011

 

Il mercoledì e il sabato sono dedicati ai bambini del progetto. Sono tanti, arrivano soli oppure a gruppetti, vengono pesati, ricevono le cure necessarie e quindi il pasto. Oggi, tra gli altri, mancava all’appello Diana, una bambina affetta da microcefalia. Ha nove anni ma ne dimostra tre, al massimo quattro. L’anno scorso, le sue condizioni di salute erano pessime e lo stato di malnutrizione era così evidente, che il volto era pallido e scavato. La mamma, a causa innanzitutto di una mancata accettazione dei problemi della figlia, si rifiutava di prendersi cura di lei e così la bambina regrediva di giorno in giorno. Era sempre costretta a letto e aveva grandi piaghe da decubito che le arrecavano ulteriori sofferenze: passava così le sue giornate, aspettando il rientro della donna, quotidianamente ubriaca a causa dell’abuso di una bevanda alcolica che produceva in casa facendo fermentare il mais. In corso d’anno la donna è stata supportata sia dal punto di vista economico che pratico, attraverso il pagamento delle rette scolastiche di Diana ad una Special Unit e, nei periodi di chiusura della stessa (un mese ogni tre), mediante visite domiciliari costanti. Con l’inserimento in struttura, la situazione è nettamente migliorata: condizioni igienico-sanitarie sicuramente più accettabili, in concomitanza a due pasti giornalieri assicurati, hanno permesso una graduale e blanda ripresa della bambina.

Ieri, tornando dal centro, siamo andati a trovarla: abita nei pressi del mercato e l’abbiamo trovata nuovamente sola, mentre si lamentava sdraiata sulla branda che occupa buona parte della piccola capanna in lamiera. L’odore che si respirava era così forte e penetrante da obbligarci ad uscire per prendere una boccata d’aria. Disillusione e rabbia. Vivere qui è difficile, i problemi della madre sono palesi e giudicare i suoi modi, senza aver provato sulla propria pelle ciò che vuol dire convivere con una sovraesposizione prolungata all’indigenza, è semplice e frivola retorica. Tuttavia, diversi però macchiano i pensieri: le è stato dato un supporto concreto e la possibilità di un’entrata mensile attraverso il lavoro nei campi, non si può lasciare un essere umano in una condizione come quella di Diana, di sua figlia. In questo momento mi interrogo sull’efficacia della collaborazione con lei, sul tentativo, a quanto pare fallito, di farle prendere coscienza del proprio ruolo genitoriale. Il progetto di vita di Diana è così limitato ad un’esistenza in branda tra i propri escrementi, senza il dono della parola, privata dell’affetto materno ma cullata, semplicemente, dalla ninna nanna dei propri lamenti. Questo è l’epilogo di una giornata triste, in cui la sintesi di sentimenti contrastanti ha fatto emergere un senso di impotenza frustrante.

 

 

Ol Moran, Martedì 02 agosto 2011

 

Il mercato si svolge ogni martedì nel centro del villaggio, inizia con la prima luce e termina a sera inoltrata: è un incontro folkloristico di gruppi tribali; mescolanza di idiomi, tradizioni e costumi che esaltano identità di appartenenza e posizione sociale.

L’area, circoscritta da uno steccato e dotata di due entrate principali, è relativamente vasta e in genere presenta un buon assortimento di prodotti alimentari, alcuni estremamente insoliti. Un concentrato di caos, stranezze e improbabili accostamenti. Decine di banchetti, alcuni finemente allestiti, altri spartani. Gente, rumore, pollastri che svolazzano e altri stipati in una gabbia grezza fissata su una bicicletta. Sono dieci, quindici, uno ammassato all’altro, accanto a bracieri ardenti sui quali abbrustoliscono teste di vitelli e capre. Un uomo raschia la patina nera su quelle più annerite, un altro bastona un asino che raglia. Galline e conigli già pronti per essere cucinati e presentati su un sacco di iuta adagiato a terra: una macelleria all’aria aperta, con tanto di tagliere, coltello e bilancia. Mosche attratte dal sangue animale contenuto in recipienti di plastica beige e capre che brucano ai margini dello spazio. Verdura fresca e frutta invitante: caschi di banane di varietà diverse, mango, papaia, arance dalla buccia verde ma dalla polpa dolce, avocado, ananas e di rado anche qualche mela. Cumuli di cavoli, cipolle piccole e rosse, pomodori, patate, sacchi di fagioli, ceci, lenticchie e altri legumi, e ancora farina, zucchero, sale, arachidi e spezie dai colori vivaci. Due bambini chiedono qualcosa da mangiare, un altro raccoglie da terra qualche verdura scartata dai venditori e la infila, guardingo, in una borsa di nylon. Tante donne turkana passeggiano tra i banchetti: si riconoscono per le grandi collane che indossano, formate da lamine discoidali in ferro e ricoperte di perline. Gli ornamenti che portano al collo raccontano la storia di ciascuna: donne sposate, nubili, vedove, con o senza figli sfoggiano così monili differenti in colore e larghezza. Passeggiano tra pokot e kikuyu, fermandosi di volta in volta a contrattare il prezzo della merce esposta nei vari banchetti. Nel vasto ritrovo tribale manca però la presenza dei samburu, un tempo numerosi qui nel distretto e poi costretti ad emigrare a causa delle lotte intertribali del 2007. Scontri cruenti, sanguinosi e spietati che hanno causato vittime e danni irreversibili nella vita di molti. Linda ne è la testimonianza: era notte e scappava con la famiglia, ma loro erano tanti, armati e senza pietà. E’ stata bloccata, ha assistito al massacro dei genitori e dei fratelli, poi è stata violentata sessualmente a più riprese. Per anni non ha più parlato: indelebile il ricordo di quelle scene e permanente l’offesa fisica che l’ha marchiata con il dramma dell’HIV.

Non riesco ad affrontare il suo sguardo, mi sento in difetto: i suoi occhi parlano degli strascichi di sorte e del tentativo di (soprav)vivere, nonostante la zavorra di un passato prossimo che non sarà mai remoto.

Ecco, in poche righe, il triste bilancio dei suoi otto anni: orfana, malnutrita, sieropositiva, privata di affetti, defraudata del suo essere bambina e vittima innocente di una delle peggiori regressioni che la razza umana possa raggiungere.

 

 

Ol Moran, Lunedì 01 agosto 2011

 

Oggi, andando al dispensario, sono stata fermata da due bambini, erano sporchi e vestiti di niente. Si dice che, dopo un certo periodo di permanenza in un contesto di povertà materiale, ci si abitua ad immagini come queste. Io non ci riesco e per me è sempre un’esperienza forte, capace a mettere in crisi il binomio autocontrollo e sfera emotiva. Con loro avevano un coniglio, me lo offrivano a 150 scellini, l’equivalente di un 1 euro e 20 centesimi. Non li avevo mai visti prima, eppure hanno detto di abitare in town, a poche centinaia di metri da qui. Avevano chiaramente fame e freddo, considerata la notte di pioggia e la brezza pungente del mattino. Hanno chiesto un’ascia e a mezzogiorno il coniglio era in padella, per chi, nonostante tutto, avesse avuto fame. I nomi dei due ragazzini non compare nella lista dei beneficiari del progetto, la quale tra il resto ha subito degli aggiornamenti: alcuni bambini si sono trasferiti altrove con la famiglia, altri sono seguiti solo da alcuni mesi e altri ancora, purtroppo, sono morti. Fa un certo effetto dover giustificare specifici costi per la rendicontazione inserendo nella voce di spesa “decesso”. Fa effetto perché ho conosciuto tutti i bambini che non ci sono più e il più grande di loro aveva solo quattro anni.

Nel pomeriggio, invece, è stato bellissimo vedere Peter, Charles, Naomi e tanti altri giocare, perché qui è un’attività fuori dal normale. Erano sereni e stranamente impegnati a divertirsi. Abbiamo montato una di quelle tende che da noi si usano “per giocare a casetta” che ci ha dato Ale: erano entusiasti, facevano il cucù dalla finestra, aspettavano il proprio turno per entrare e poi si rimettevano in fila. Si sono svagati tanto anche con le bolle di sapone, che all’inizio, sono state oggetto di timore e perplessità visto che solo pochi coraggiosi hanno azzardato avvicinarsi.

Inoltre, qualche mese fa, a scuola, avevo sequestrato uno di quegli skateboard tascabili e gettonatissimi (almeno tra i miei alunni), perché due ragazzini se lo contendevano ed entrambi ne rivendicavano la proprietà. Non arrivando ad alcun compromesso, di comune accordo avevamo deciso che avrei portato proprio quel gioco ad Ol Moran, così qualche altro bambino avrebbe potuto giocarci. E così è stato: insieme a macchinine e mostri ha costituito l’attrattiva maschile per eccellenza, mentre i braccialetti realizzati da altri alunni intrecciando fili di lana o cotone, hanno richiamato l’attenzione delle femmine. Un pomeriggio pieno e allegro, che se n’è andato veloce ma ha permesso ai bambini di godere, sia pur per poco, di un loro diritto, senza la preoccupazione del lavoro e dei fratelli da accudire.

 

 

Ol Moran, Domenica 31 luglio 2011

 

Oggi non abbiamo lavorato alla rendicontazione, ma ci siamo goduti il territorio e la sua gente. In mattinata siamo andati a Gitwamba, una località ad una quindicina di chilometri da qui, abitata da una flora di enormi cactus grigi, grandi aloe e svariate piante grasse. Una vista meravigliosa a 360°, con l’orizzonte che divideva chiaramente terra e cielo, generando una linea di spaccatura tra i due elementi, come succede nei disegni stilizzati dei bambini. Durante la notte, un forte temporale aveva ripulito la leggera coltre di polvere che spesso, qui, caratterizza il panorama e così la visuale era nitida e luminosa. I colori di ogni elemento spiccavano per vivacità, e il loro accostamento ne permetteva un risalto sensazionale: il vermiglio delle chiazze di terriccio unite alle svariate gamme di verde delle piante, al bianco puro delle pietre e all’azzurro carico del cielo. Un quadro del Louvre.

Sembrava un paesaggio solitario e, ad un primo sguardo, nessuna capanna era visibile. Solo dopo un’attenta osservazione si poteva scorgere, in lontananza, la punta di qualche tetto in paglia protetto da una sorta di recinzione vegetale costituita soprattutto da fitti ceppi sempreverdi. Ma è bastato fermarsi un attimo con la jeep per trovarsi circondati, in breve, da un gruppetto di bambini: stavano andando alla messa domenicale, nella chiesetta eretta a poca distanza. Con loro c’era anche un uomo, probabilmente l’anziano del villaggio, vestito a festa e molto cordiale: un keniano perfetto e molto formale, in termini di abbigliamento. Indossava pantaloni eleganti, camicia e giacca: indumenti che si sfoggiano in occasioni speciali o durante il giorno di riposo. Ai piedi portava dei sandali realizzati con pneumatici delle auto e dei calzini, nei quali aveva inserito l’orlo dei pantaloni per non sporcarli. Con una mano teneva una bambina che ci guardava spaventata, mentre con l’altra stringeva una borsa nella quale c’erano alcune uova, che avrebbe offerto durante la funzione religiosa. Nel distretto di Ol Moran sono numerosissime le persone, provenienti dalle più svariate tribù, convertitesi al Cristianesimo e, spesso, la messa si trasforma anche in occasione per stare insieme, incontrarsi e discutere sui vari problemi della comunità. Si tratta di cerimonie lontane dall’impostazione claustrale e rigida delle messe alle quali siamo abituati noi: canzoni, musica e ritmo scandiscono il rito che può durare anche ore, e che termina con un dibattito comunitario, affrontando per esempio, l’oggetto di un possibile harambee.

Sulla strada del ritorno, per un lungo tratto non abbiamo incrociato nessuno, ma quando ci siamo immessi sulla lunga via dritta e per certi versi monotona che da Kinamba conduce ad Ol Moran, la presenza umana ha cominciato ad essere evidente. Alcune biciclette, bambini in gruppo oppure soli, donne con i kiondo (le tipiche borse di paglia che spesso portano sulla testa per alleviare la fatica fisica), e addirittura qualche motocicletta cromata, anche se ammetto che la loro presenza stride con il contesto e mette in risalto come tradizione e modernità si trovino spesso in conflitto una con l’altra.

Nel pomeriggio abbiamo raggiunto Ndonwo riwo, un vero e proprio regno incontrastato della natura, dove l’ocra delle piante grasse ha ceduto il passo ad una vegetazione scarna, anticamera di un paesaggio per lunghi tratti piatto come la superficie di un tavolo. Ma scegliendo un altro sentiero, ci siamo immersi in un territorio simile alla giungla con fili di edera che parevano liane che pendevano dagli alberi e piccole pareti rocciose che rimandavano vagamente all’idea di canyon. Abbiamo proseguito ancora, fermandoci presso una radura circondata da un bush, formato perlopiù da basse acacie dal profumo intenso e da arbusti spinosi, inframmezzato da qualche falò accesso per bruciare il carbone. La zona è abitata quasi esclusivamente da pokot, difficilmente si trovano turkana o samburu e io sono rimasta senza parole quando ho scoperto che, molti bambini seguiti dal programma, provengono proprio da lì e quindi devono percorrere 8, 9 ore di cammino per raggiungere il dispensario.

Durante il tragitto abbiamo incrociato branchi di zebre, antilopi, impala e dik dik ma, considerate le impronte evidenti sul terreno, di lì erano passati anche elefanti, bufali o qualche altro animale di grossa taglia. Tra il resto, la settimana scorsa, un leone affamato aveva sbranato una donna di un villaggio a poca distanza e confesso che l’idea di percorrere un tratto di strada a piedi non mi allettava per niente.

Dalla radura ci siamo incamminati nella boscaglia, dove abbiamo trovato un ragazzo con la tipica shuka a quadri bianchi e rossi indossata come una sottana e un bastone con l’estremità a forma di sfera. Aveva il collo ornato di collane coloratissime e una piccola placchetta d’alluminio al naso. Dietro di lui, a pochi metri, camminavano due donne, statuarie nella loro bellezza: alte, snelle, con i lineamenti del volto delicati e messi in risalto dal nero intenso della pelle. Erano due giovani mamme che portavano i figli nel kanga, tenendo in mano una zucca incavata e finemente abbellita, una sorta di biberon per i due neonati. Ancora adesso non riesco a capire come delle persone possano abitare in un contesto tanto selvaggio e, all’apparenza, ostile a qualsiasi forma di insediamento umano.

Vivono soprattutto di allevamento in un’enclave tribale che si basa su credenze in forte rapporto con la natura e i suoi cicli, spesso pregano gli spiriti e chiedono a stregoni di fare da intermediari tra il mondo umano e quello ultraterreno.

Non potendo comunicare in altro modo, le due ragazze si esprimevano a gesti, indicando il cielo e facendoci capire che, di lì a poco, un temporale avrebbe potuto bloccarci in mezzo a quel tutto e a quel nulla. Forse, vivendo in un ambiente simile, hanno affinato la loro capacità di captare specifici segnali naturali, decifrandoli e agendo di conseguenza. Le abbiamo ascoltate e siamo tornati a casa, ammirando ancora quella vastità primitiva, resa ancor più affascinante dalla luce calda del crepuscolo africano.

 

 

Ol Moran, Sabato 30 luglio 2011

 

Nel pomeriggio di ieri, tra le donne che zappavano la terra c’era anche Mama Waithera, la mamma delle due gemelline seguite dal programma che portano ancora evidenti i segni causati dalla malnutrizione, soprattutto in testa, per via della chiusura della cassa cranica avvenuta con un forte lentezza. Anche il racconto della sua vita fa parte del libro infinito di cui accennavo: sola, con un lieve ritardo mentale a causa della denutrizione, quattro figli sulle spalle, altri tre morti, un passato di violenze fisiche dal marito alcolizzato. Ma la storia non finisce così: ha un proseguo dai toni drammatici e tristi.

Ieri Waithera portava nel kanga Damaris, una piccola di tre mesi, che piangendo obbligava la donna a fermarsi per allattarla. In serata, chiedendo informazioni sulle generalità del padre della bambina, ho scoperto che è frutto di un abuso sessuale subito dalla donna al quale hanno assistito, impotenti e atterriti anche i figli. Un pokot, dicono, che si è trasferito in terre lontane con la mandria, un uomo conosciuto dalla polizia, la quale però, si sa, è corrotta e quindi non interviene, non castiga o condanna in modo sbagliato. Un racconto truculento, non ci sono stati commenti.

Stamattina sono tornata alla shamba e la donna era lì, a guadagnarsi da mangiare e mentre una gemella consolava la sorellina, l’altra aiutava la mamma. Scene come queste non possono che essere da monito e tornare alla mente quando ci si lamenta per qualcosa di frivolo e legato alla banale quotidianità.

Rientrando in casa ho poi incrociato Kaheo, un uomo di mezz’età con problemi psichici che ormai conosciamo bene, visto che per il quarto anno di seguito, trascorriamo il mese di permanenza ad Ol Moran con lui. Lo consideriamo la nostra mascotte: ogni giorno arriva puntuale ad ora di pranzo con il suo bastone e il capellino che gli è stato regalato da un medico italiano, parlando tra sé. Saluta cordialmente con uno storpiato “Buongiorno” in italiano e poi ride di gusto. E’ buono e non conosce prepotenza o aggressività. Oggi ripeteva con insistenza “karato” e io non capivo cosa volesse dire. Chiedeva delle scarpe, mostrandomi lo zoccolo calloso sotto ai suoi piedi. Purtroppo ogni qualvolta gli si dà qualche indumento gli viene puntualmente rubato e spesso durante il furto subisce anche percosse. Nel villaggio tanti lo proteggono e, dopo la morte di sua mamma, una donna ha messo a disposizione una capanna in lamiera dove può dormire. Dopo un lungo percorso di sensibilizzazione all’interno della comunità, anche Kaheo sta finalmente capendo ciò che si prova ad essere accettati senza condizioni né riserve. Nella piccola baracca ha un materasso con una coperta, un paio di ciabatte che nasconde sotto un cumulo di terra come fossero estremamente preziose e alcune bottiglie di plastica che raccatta da terra. I vicini dicono che a volte, la sera, quando non trova nessuno disposto a dargli da mangiare, piange e poi si addormenta. La mattina torna a sorridere e di nuovo si presenta a chiedere del cibo. Fa tenerezza e, probabilmente, quel mondo ovattato nel quale si rifugia parlando da solo, lo allontana dalla consapevolezza delle difficoltà tangibili con le quali giornalmente si rapporta.

 

 

Ol Moran, Venerdì 29 luglio 2011

 

Oggi è stata giornata di festa: i bambini sono tornati a casa con un giorno di ritardo ed è stato meraviglioso riabbracciarli. Ero in cucina quando in cinque hanno spalancato la porta e mi sono saltati addosso, prime fra tutti Virginia e poi Nancy. “Mi sei mancata” ha detto con la sua vocina dolce in un perfetto inglese. Non c’è stato niente da fare, anche questa volta mi sono sciolta. “Guarda i miei voti” gridava Hassan, vantandosi della sua pagella. La fierezza che gli illuminava il viso faceva intuire facilmente la sua felicità. L’ho trovato bene: nonostante l’aids e la crisi di quest’inverno a causa della tubercolosi, aveva un aspetto sereno, e poi era splendido nella sua uniforme scolastica. Tra il resto la micosi che aveva in testa è scomparsa e i capelli hanno coperto completamente il capo. Kuya, con il suo tono baritonale inconfondibile, ha chiesto dov’è Chiara e perché non è qui con noi, mentre Peter ha continuato a chiamarmi Julia e a baciarmi. Vai a spiegargli che mia sorella appartiene ad un’altra generazione rispetto alla mia…ho preferito “incassare e metter via”, mica capita tutti i giorni di avere nove anni in meno!

E’ stato un pomeriggio che resterà nell’arsenale dei ricordi, difficile raccontare a parole il tutto, ma il video in cui i bambini corrono incontro a Tommy, colto di sorpresa, e lui che ne prende in braccio due, tre chiamandoli per nome mi può essere di grande aiuto.

Alcune mamme che lavoravano la shamba mi hanno chiesto se avevo già visitato l’interno del nuovo centro e nei loro occhi era semplice leggere un grande orgoglio. Possiamo infatti considerare la struttura come un perfetto esempio di harambee, emblema dell’impulso indipendentista trasmesso dal primo presidente del Paese, Jomo Kenyatta. Fondamentalmente esso si concretizza nella volontà di raggiungere una meta condivisa mediante il contributo collettivo della comunità. Così è stato anche qui: di fatto bisogna riconoscere che, oltre alla partecipazione di “Lucicate” a livello finanziario, ogni famiglia del luogo, secondo le proprie disponibilità economiche e di tempo, è stata coinvolta nella realizzazione della struttura. Questo è il segno concreto che la partecipazione è effettiva e sentita dalla maggior parte delle persone.

E’ già notte e un altro giorno è trascorso nella terra capace a far apprezzare perfino l’effetto rilassante di una notte di sonno…

 

 

Ol Moran, Giovedì 28 luglio 2011

 

Socializzare con Evelin è semplice: dopo il momento iniziale di comprensibile timidezza ed imbarazzo, mi racconta di lei e della sua esistenza semplice tra casa e scuola. Ha quindici anni, è arrivata ieri insieme agli altri quattro ragazzini e adesso aspetta la sorella: la verrà a prendere in bicicletta per portarla a casa, che dista qualche chilometro da qui.

Con sé ha portato la borsa in iuta per i quaderni e nient’altro, perché insieme all’uniforme che indossa e le stampelle che le permettono di camminare è tutto quello che ha. E’ intelligente, parla perfettamente due lingue ed ha ottenuto i risultati più alti della classe in tutte le materie. Ha tanti progetti per il futuro: vorrebbe diventare dottoressa o assistente sociale, dice, perché le piace prendersi cura degli altri. La sua scuola è, per l’appunto, denominata Special, Speciale, perché gli alunni che la frequentano sono diversi in qualcosa. In Italia sta prendendo piede l’utilizzo di un termine a valenza positiva per indicare le persone con qualche forma di difficoltà, si parla di diversamente abili, quasi a voler esaltare il fatto che, la menomazione che affligge specifici ambiti del corpo umano, non va ad intaccarne altri. La persona si distingue così per la sua abilità diversa, non canonica ed ammirevole che coesiste ed è forte accanto ad un problema che c’è ed è riconosciuto. Gli specialisti del settore affermano che la strada da percorrere affinché il significato veicolato dal termine possa realmente essere condiviso da tutti è lunga: troppi sono i pregiudizi, i luoghi comuni e i preconcetti. Questo succede in Italia, figuriamoci in Kenya dove la persona in difficoltà è ancora vista come il frutto di una punizione ultraterrena. E così quel “Speciale” fa riferimento ad una scuola specifica per i diversamente abili che non dispone però di apposite apparecchiature o strumenti, ma si presenta, detta brutalmente, come un ghetto dove i vari problemi non sono considerati nella loro specificità ma riconosciuti tutti alla stessa stregua: handicap.

È chiaro che in Kenya non c’è giustizia. La storia di Evelin fa parte di un libro infinito che ad ogni pagina racconta di un caso a se stante. Il mese scorso è morta una mamma insieme al suo bambino, non ancora nato. Aveva le doglie e all’accettazione dell’ospedale si sono rifiutati di ricoverarla: non aveva soldi a sufficienza per pagare la degenza. Lo stesso trattamento è stato riservato ad un bambino malnutrito e inutili sono state le suppliche dei familiari. Fatti inaccettabili come questi fanno capire che qui, ancora oggi, la maggioranza delle persone non ha accesso nemmeno ai servizi essenziali. Questa ingiustizia si coglie innanzitutto nei bambini, ma occorre tener presente che a monte della loro situazione c’è una famiglia cha ha bisogno di un appoggio e che merita attenzione. Ci sono innanzitutto le mamme, talmente surclassate nel loro essere donna, che per alcune tribù, quale per esempio i pokot, occupano il posto più basso della scala sociale: prima viene l’uomo, quindi il bestiame, poi i figli ed infine le mogli, che possono essere “prestate” a fratelli, cugini o amici (la coppia monogama è in realtà solo una parvenza). La settimana scorsa si è presentata in dispensario una ragazza, aveva la gola gonfia e non riusciva a parlare. Così le è stato prescritto un antibiotico che le avrebbe però impedito di allattare per un certo periodo. Quando il marito l’ha saputo, l’ha portata via a forza perché non aveva alcuna intenzione di comprare il latte in polvere per il figlio. La donna è morta tre giorni dopo. Questo è il quadro del degrado sociale che, come sempre, colpisce i più deboli.

 

 

Ol Moran, Mercoledì 27 luglio 2011

 

Una casa circondata da erbe e fiori con proprietà medicamentose, un ovile, un piccolo orto, ma, soprattutto, il nuovo centro che, a partire da settembre, ospiterà i bambini del progetto: un edificio grande, in muratura, munito di cucina, ripostiglio, sala da pranzo e due stanze per il pernottamento. Non mancano i gabinetti a mò di turche e due scomparti adibiti a box doccia. Gli sviluppi all’interno del territorio parrocchiale sono evidenti, spiccano subito all’occhio e ciò che sorprende è il coinvolgimento della popolazione nella conduzione delle varie attività. La costruzione della struttura è stata progettata da un ingegnere keniano, mentre l’appalto è andato ad una ditta che ha reclutato tutti operai residenti ad Ol Moran.

E così, mentre gli uomini del luogo si occupano del completamento della casa, le donne lavorano la shamba, curano l’orto, preparano il cibo per i bambini e tagliano la legna.

All’unisono, come se si fossero messi d’accordo, gli operai salutano e augurano una buona giornata. La mattina trascorre in fretta, recuperando il materiale utile per rendicontare il progetto e giocando con i più piccoli del programma: sono 3,4, 9,10; si nascondevano avvolti nei kanga dei fratelli più grandi o delle mamme per ripararsi dal freddo mattutino ed ora escono allo scoperto, chi gattonando, chi azzardando i primi passi.

Una ragazzina, più degli altri, mi colpisce per i suoi modi protettivi di prendersi cura della sorellina: è scalza, con una gonna sciupata e una vecchia maglietta. Il suo maglione avvolge la neonata che porta sulla schiena e che mi osserva con diffidenza da una fessura del telo. Provo a chiederle come si chiama, mi risponde in kiswahili scuotendo la testa, segno evidente che non è mai andata a scuola, o forse sì, in passato, ma è trascorso troppo tempo per ricordare qualche parola in inglese. Forse appartiene a quella schiera di sfortunati bambini costretti ad abbandonare la scuola per evidenti ragioni di sopravvivenza, spinti dalle famiglie a fare i pastori migranti. Forse anche lei ha alle spalle una storia triste perché è vero che morire di fame e di sete è cosa grave, ma anche l’essere privati di un sapere base è una condizione inaccettabile. Irrazionale se si pensa che da noi si disquisisce, riunione dopo riunione, sul grande enigma che affligge l’insegnamento della lingua straniera alle elementari: meglio la lezione canonica o il veicolare??? Qui basterebbe solo la lezione, senza l’opzione della scelta. E invece.

Nel tardo pomeriggio arriva la pioggia, facendo voltare pagina al cielo in maniera repentina e impercettibile e cancellando il sole che fino a poco tempo prima dominava la scena. Il temporale blocca il matatu che trasporta i 5 bambini delle Special Unit di Nyahururu, occorre fare presto e recuperarli con la jeep: sta calando la sera e loro sono fermi nei pressi del villaggio a 15 km da qui.

Arrivano ad ora di cena, in fila indiana e silenziosi, sono cinque e tre di loro, che ancora non conosco di persona, hanno grosse difficoltà a deambulare e trascinano le gambe grazie all’aiuto di stampelle in legno fissate alle giunture con dei grossi chiodi.

Per ultimi avanzano un po’ spaesati Kevin, così forte da non cedere alla meningite, e Aita, che parla con occhi e gesti. Per me è un momento indescrivibile.

 

 

Ol Moran, Martedì 26 luglio 2011

 

L’ora di partenza da Ngong Road, le 8.30 del mattino, era risaputa già da alcuni giorni, ciò che non sapevamo era il quando avremmo raggiunto Ol Moran. I miei viaggi in Kenya mi hanno infatti insegnato che la durata degli spostamenti, o di qualsiasi attività legata alla scansione temporale, non può essere stabilità a priori perché legata a fattori contingenti e imprevedibili. In questo caso abbiamo aspettato fino a quando i 14 posti disponibili del nostro matatu sono stati occupati, quindi, dopo due ore, siamo partiti sfidando il traffico, che durante la mattina, costringe l’area della stazione ad un blocco forzato. Durante l’attesa, tantissimi venditori ambulanti proponevano l’acquisto degli oggetti più disparati: quotidiani; riviste, ricariche telefoniche; libri; vestiti; ma anche salsicce, uova sode, sarde fritte, chai e tè tenuti al caldo in grandi termos di plastica. All’orizzonte una nube grigia e densa contornava la città: un asfissiante abbraccio di smog che ho confuso con le nuvole che precedono un temporale. In genere a Nairobi, quando ci si sveglia, quella stessa nube non dà la possibilità di capire com’è il tempo ed è solo nella tarda mattinata che si attenua, fino a scomparire, lasciando il posto ad un meraviglioso cielo color cobalto.

I villaggi della periferia sono formati perlopiù da piccole abitazioni in muratura e il tetto in lamiera, mentre, spostandosi verso l’entroterra, si può notare come il paesaggio si presenti maggiormente rurale, vestendo i piccoli borghi, delimitati da appezzamenti di terra colorata a verde del mais, di un abito agreste e campagnolo.

Foresta, savana, pianura e ancora foresta fino ad arrivare alla Rift valley, uno spettacolo di terra distesa su un tappeto incavato rispetto al resto. Scimmie e zebre che attraversano la strada e sembrano abituate alla presenza dell’uomo. Da lì Nyahururu dista solo un’ora abbondante e da lì si realizza che in poco tempo si arriverà ad Ol Moran, uno spazio vasto e desolato che sembra continuare all’infinito ma che io trovo estremamente affascinante. Così l’avevo lasciato l’anno scorso: arido, brullo, dipinto del rosso magenta del terreno e rivestito di sterpaglia gialla e arbusti dagli steli taglienti e muniti di spine simili a quelle del cactus. Ora quel quadro è stato arricchito dal verde delle piante che affiorano ardite sopra ai roveti, e a completare l’opera naturale c’è anche la presenza delle chiazze viola dei fiori che, lungo la strada sterrata, si espandono lungo i recinti di qualche capanna.

A quanto pare la siccità che ha costretto alla terapia intensiva la zona settentrionale del Paese e gran parte del Sudan, ha risparmiato l’area di Laikipia che, ricordiamolo, sta ancora pagando le conseguenze di una terribile metamorfosi che ha trasformato in zona semidesertica un’immensa superficie di savana.

Pochi chilometri al villaggio: a lato della strada, due enormi elefanti poltriscono tra le acacie, mimetizzati grazie al loro color marrone che li fa sembrare due grandi massi di sabbia. L’autista del matatu accosta e tutti i presenti li guardano stupiti. Che i pachidermi facciano parte integrante della fauna del posto si sa, ma la loro presenza tanto ravvicinata fa un certo effetto anche per i locali.

Cala la sera, l’uomo che siede vicino a noi dice che siamo stati fortunati: il giorno precedente, la pioggia fitta aveva completamente cancellato la strada, trasformandola in una debole traccia impregnata di fango a tal punto da arenare nei solchi di melma qualsiasi mezzo.

L’arrivo ad Ol Moran è sempre emozionante: senza elettricità il buio regna sovrano e le stelle, senza l’interferenza della luce artificiale, sono così tante e luccicanti, che ho la sensazione di trovarmi all’interno di una di quelle bocce trasparenti la cui cupola racchiude al suo interno proprio il mondo che illumina.

E’ ora di cena, so già che vedrò la maggior parte dei bambini giovedì, quando scuole e Special Units chiuderanno per il mese di riposo e loro faranno ritorno al villaggio. Per adesso so che Nancy e gli altri, dopo il loro primo anno da alunni, parlano un very fluently English.

Ed è da qui che inizia il ritorno ad Ol Moran.

 

 

Nairobi, Lunedì, 25 luglio

 

I giorni a Nairobi sono così passati veloci e il sentore della carestia, di cui parlano i nostri notiziari, qui l’ho percepito solo parzialmente: le classi medie e i ricchi arroccati nel cuore cittadino ignorano il fatto e perseverano a condurre uno stile di vita dallo standard elevato, mentre purtroppo l’aumento esponenziale del prezzo del mais, dei fagioli e di tutti quegli alimenti basilari di una dieta semplice, provocato dalla penuria di derrate alimentari, ha avuto forte ripercussioni nei quartieri degradati. Succede così che con la crisi si fa più pesante la guerra tra i poveri: aumentano i furti, i rioni diventano insicuri, chiunque è alla continua ricerca di cibo e la polizia, rappresentata perlopiù da un misto di inettitudine e corruzione, non è in grado di fronteggiare la situazione giunta ormai al culmine, ovvero ad una condizione cronica. E così quelle zone diventano terre senza alcun controllo e abbandonate dal Governo che ignora le condizioni inaccettabili di chi ci vive… probabilmente le Autorità al potere considerano Kibera, Korogocho e le altre baraccopoli come parti avulse della città, il cancro urbano che non merita di essere considerato. Credo che manchi la volontà di un cambiamento, non perché le dimensioni dell’impresa appaiono scoraggianti, ma piuttosto perché la storia di interessi e brogli ha ramificazioni infinite.

 

 

Ol Moran, Domenica, 24 luglio 2011

 

Kibera è sempre impattante, non ci si può abituare ad essa e quando si attraversano le sue viuzze infangate, sporche e formate da più strati di rifiuti, carcasse di animali, stracci e rivoli di fogna cala il silenzio e lo sguardo si fa basso. Ci si sente spaesati e gli atteggiamenti si fanno goffi, al massimo si pronuncia un impacciato: “ Hai visto anche tu?” alla persona a fianco, quasi a voler sincerarsi che ciò che si sta vivendo non è frutto dell’immaginazione ma pura realtà. Odori forti e acri a tal punto da togliere il respiro per alcuni istanti, odori di fogna, di pesce essiccato al sole e ricoperto di mosche, di bistecche di capra sanguinanti appese ad un gancio di ferro e in vendita a 100 scellini al Kg, fetori nauseabondi di discarica uniti al profumo di patate che friggono in padella. Rumore, rumore ovunque: sette che pregano; uomini che invitano le persone ad entrare nei loro negozietti in lamiera ondulata; bambini che corrono e giocano seminudi; una donna che impreca; un’altra che piange; un uomo colto da malore accovacciato tra la spazzatura e un cerchio di curiosi che osserva e tenta di intervenire; due gruppi di giovani che si picchiano; galline che svolazzano e scappano dalle mani audaci di un temerario piccoletto di tre anni che sembra non aver paura di niente.

Nello slum, la visita nelle case dei malati è per me motivo di grande disagio, mi sembra di violare la loro dignità, occupando lo spazio angusto e cieco delle loro baracche senza offrire il beneficio di un supporto, di un qualsiasi intervento benefico, ma solo con la presenza fisica che non porta a niente. Clari non capisce la mia sensazione di disagio, vorrebbe portarci ovunque e ci chiede di spendere qualche parola per dar loro coraggio. Mi sento una stupida ed ogni discorso è inutile e superficiale: “Mi dispiace, vedrai che domani andrà meglio”?, oppure “Sii forte”?... No, questi sono banali eufemismi e non possono essere utilizzati a Kibera perché là non hanno alcun senso: è difficile pensare persino ad un futuro prossimo per gli infermi che ho conosciuto, costretti a vivere tra quattro lamiere tenute insieme da assi di legno consumato e putrido senza acqua, servizi igienici né corrente elettrica.

 

Nairbobi, Sabato 23 luglio 2011

Habari Italia,

abbiamo grosse difficoltà ad accedere alla connessione Internet e quindi, probabilmente, questa sarà una delle poche mail che riusciremo a scrivervi.

Siamo arrivati all’aeroporto di Nairobi nella prima mattinata di venerdì scorso, ad attenderci Clari e Lyta che, grazie alla loro loquacità, hanno condensato in un racconto di venti minuti gli ultimi tre mesi di vita. Uniche.

Io invece avevo tante cose da esternare ma il concatenamento tra linguaggio e pensiero era, come sempre accade nella fase di ingranaggio in Kenya, decelerato, circoscritto da un positivo spaesamento capace a toccare ora gli apici dalla confusione, ora la felicità nel rivederle.

Che strano effetto, poi, il giorno seguente, camminare lungo la caotica Ngong road come se fosse cosa ordinaria. Quando la percorro, ad ogni passo colgo un motivo per cui meravigliarmi: matatu colmi di persone stipate; automobilisti impazienti attaccati al clacson; impavidi pedoni decisi ad attraversare la carreggiata dominata dal traffico anarchico; musica che proviene da chissà quale fonte; donne agghindate in vestiti dai colori sgargianti e con parrucche kitsch impregnate di lacca; gente che prega o che dorme sul ciglio del marciapiede; venditori ambulanti di piante da giardino trasportate su un vecchio carretto; ciabattini intenti a lucidare scarpe nella loro bottega improvvisata con plaid e sgabello, ma anche bambini barcollanti con gli occhi allucinati dagli effetti della colla che sembrano avvisare che il valico con Kibera è lì ad un passo. L’istinto sprona a fermarsi, ci si volta alla ricerca di qualcuno che possa aver colto la stessa immagine che non dovrebbe lasciare indenne la sensibilità di nessuno, ma è tutto inutile, in quella quotidiana ed illogica Babilonia la pedina fuori posto è facilmente riconoscibile.

Fuori dal ricco supermercato, aperto ventiquattro ore su ventiquattro, ci si imbatte in un ragazzino che impersona il monito a ricordare dove ci si trova effettivamente e che implora un po’ di cibo o qualche moneta. Il ragazzino puntualmente viene cacciato dal guardiano in uniforme che, mentre lo rimprovera alzando il bastone, sorride, china la schiena in segno di riverenza e propone gentilmente di entrare nel negozio. Lui rappresenta così il fittizio e l’apparente. Il benvenuto che Nairobi dà a chi la visita è scaltramente fuorviante, come se volesse sfidare proprio quel qualcuno a trovare risposte razionali allo sconvolgente parapiglia che offre.